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ATEISMO E DESIDERIO DI DIO NELL’OPERA DI HENRI DE LUBAC

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Ha ancora senso parlare oggi di ateismo? e parlarne in un’opposizione radicale ma anche congiuntiva al desiderio di Dio? Questa domanda non è né oziosa né fine a se stessa, perché il nostro tempo non conosce più una fede drammatica e tormentata, una fede che lotti contro il dubbio e su di esso si affermi imparando a conviverci, una fede che sappia riconoscere il male e nominarlo, disposta a combatterlo con le unghie e coi denti piuttosto che cedervi, una fede che sia tutt’uno con la verità e la cerchi, e trovi nel mistero di Cristo i parametri paradossali per giudicare ciò che è bene e ciò che è male. …

Una fede cosi noi, puramente e semplicemente, non la conosciamo più. …Le cose si sono stinte in un indifferentismo nel quale tutti possono riconoscersi in tutto, dato che, in fondo, non c’è niente che faccia veramente la differenza. …Rarissimo trovare un uomo che creda in Gesù Cristo e viva in conseguenza; ancor più raro trovare un ateo dichiarato che abbia realmente il coraggio di portare alle logiche conseguenze la sua professione di ateismo….

Dovremmo scandalizzarci di tutto ciò? Potremmo farlo se fossimo credenti o atei, ma noi non siamo più né gli uni né gli altri, e cosi abbiamo perduto il diritto allo ‘scandalo’, privilegio che ormai ci è negato nell’incolpevole mutare dei tempi. …

La nostra, dunque – forse nostro malgrado – è un’epoca chiamata a una sintesi, provvisoria quanto si vuole, ma pur sempre sintesi. …si tratta di decidere, in fondo, se lo sforzo prometeico che l’uomo ha compiuto nella modernità e continua a compiere con indefesso vigore debba portare da qualche parte nell’elevazione della natura umana o risponda esclusivamente a un desiderio di sopraffazione e dominio che si radica nell’istinto del potere.

È ovvio che nella determinazione della direzione di questa marcia la questione se l’uomo abbia o non abbia da realizzare un valore eterno è centrale e preponderante, perché se un valore eterno da realizzare non c’è o non c’è più, occorre avere il coraggio di riconoscerlo e ammetterlo, in luogo di usare la religione per fini che non sono i suoi. Se invece un valore eterno esiste, bisogna che la fede in Dio sia in grado di progettare un futuro che sappia costituire un’alternativa credibile al gioco meschinamente tragico della sopraffazione del forte su debole. La lotta tra fede e incredulità si deciderà anche nella capacità o meno d’attuare questa prospettiva. …

Per questo ci è sembrato che l’opera di Henri de Lubac costituisse un approdo e un punto di ?artenza privilegiato per un’analisi che deve tener conto tanto dell’incolore attualità quanto del futuro fecondo che in essa si cela. La sua teologia. infatti, sottopone l’ateismo a una severa critica e oscilla tra un’aperta condanna degli esiti di questo pensiero e toni di velata simpatia per le esperienze geniali che esso contiene.

Certo, egli non lascia dubbi sulla negatività complessiva del fenomeno, ma ci consegna anche scritti di articolata complessità, che bene illuminano il tormento e il travaglio di anime inappagate dell’esistente e in rivolta contro ingiustizia e finzione. Egli ci conduce lungo un percorso tortuoso, dove la tersa adesione di fede alla Persona di Cristo è chiamata a misurarsi con la provocazione di visioni del mondo che pretendono di superarla e soppiantarla definitivamente, mentre lo spirito è sfidato in una lotta senza esclusione di colpi, da cui deve saper trarre tutto il positivo nella propria ricerca di un senso ultimo delle cose. …

La palude indifferentista nella quale ancora ci muoviamo è condizionata da concezioni che hanno preteso di ridurre il cristianesimo alle misure dell’uomo, togliendo di mezzo quanto in esso è d’intralcio al libero dispiegamento di un “autonomia” creaturale concepita come arbitraria posizione/imposizione di opzioni e di fini. Eliminato dal cristianesimo lo scandalo dell’Amore, è stato facile accordarsi su una nozione di natura umana non più aperta al soprannaturale e all’azione.

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